Qual è la chiave giusta per coltivare il talento?
Coltivare un talento significa che una persona riesce a esprimere il proprio potenziale e durare nel tempo. Se si trova un’atleta brava a 16 anni che a 20 vince le Olimpiadi ma a 21 anni ha smesso, secondo me vuol dire che non è stato fatto un buon lavoro. La chiave è quella di non avere fretta, di non esagerare nelle richieste e nel peso delle varie conciliazioni, sport e vita privata, sport e scuola, sport e studio, vita sociale e quant’altro. Non bisogna eccedere, quindi, nello “stress test” e creare condizioni che permettano queste conciliazioni. Coltivare il talento non significa sottrarlo a qualsiasi piacere della vita, solo così gli atleti conservano la passione, l’interesse, la curiosità, finché non hanno superato la categoria junior. Intorno ai 20, 22 anni, hanno un’altra testa sulle spalle e se si trovano a quell’età senza “bruciarsi” prima, sono in grado di accettare le sfide dello sport ad altissimo livello. Se queste condizioni le poniamo ai ragazzi sotto i 20 anni, rischiamo di bruciarli.
Quali sono i valori che devono avvicinare i ragazzi al mondo dello sport?
Più che valori, sono dei sani principi, gli adulti devono fare loro delle proposte, perché un bambino di 10, 12 anni non sa tutte le possibilità che ci sono. Gli devono essere presentate tutte le possibilità, devono provarle e devono farli scegliere con la massima serenità. I bambini fanno sport e si misurano con gli altri, vogliono vincere, però deve essere sano il modo in cui vivono l’agonismo e la competizione. Non devono essere caricati dalle nostre aspettative che vanno nella direzione di voler dare loro un futuro da grande campione; non dobbiamo dare loro l’idea di averli messi all’interno di un contesto sperando che prendano un ascensore sociale. Per me è un valore, lo sport “giocato”, vissuto come scoperta, come campo di prova di solidarietà, socialità, convivenza, rispetto per gli altri che diventa rispetto per se stessi. Per me questi sono i grandi valori che devono respirare i giovani quando vengono avvicinati allo sport.
Negli ultimi anni è sempre più attiva in ambito sociale, sostenendo la valenza educativa dello sport: quanta responsabilità sente nell’essere diventata quasi un’“ambasciatrice” di questo mondo?
Negli ultimi anni ho dato una cornice concreta a questa responsabilità: l’anno scorso mi sono laureata in Psicologia e attualmente collaboro con l’area del settore giovanile scolastico della FIGC, per fare in modo che si possa promuovere un altro modello nello sport, specie nel calcio che è uno degli sport che stimolano di più i sogni dei ragazzi e degli adulti, ma che li delude anche di più. Costruisco i contenuti della formazione per i genitori e per gli allenatori, costruisco i laboratori per i ragazzi affinché siano a conoscenza dei valori dello sport e li interiorizzino. Parlando di giovani, inoltre, mi piace molto ricordare che con loro il lavoro diventa proiettato nel futuro. Spesso nello sport di alto livello, approdano degli atleti “cresciuti male”, ossia all’interno di un contesto educativo che si ispira a paradigmi superati. È importante lavorare bene con i giovani ma non solo per quel periodo di età perché, muovendosi sulla linea del tempo, quelli che hanno lavorato in un contesto costruttivo e supportativo, saranno degli adulti che potranno beneficiare dello sport per tutta la vita. Un obiettivo al quale dobbiamo aspirare è, dunque, che chiunque faccia dello sport, che sia bravo o meno, il giorno in cui chiude quella parte della sua carriera abbia, sempre, una bella storia da raccontare.
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