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TRE PARADOSSI DEL MONDO DEL LAVORO

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12 Febbraio 2021

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Fonte: softskills.eggup.co

Cos’è un paradosso? 
Iniziamo con un esempio di paradosso, lo chiameremo: Le bugie dell’Internet. “Quello che leggi su internet è falso. Vero? Sì. Ma così anche questa frase è falsa. Falso? Ok, solo se non lo stai leggendo su internet!” Consideralo un esempio metaforico del paradossale, ispirato al Paradosso di Zenone (o del Mentitore). Ciò che hai letto sin qui ti può risultare un po’ caotico. E lo è. Ma continua, e gradualmente i concetti si faranno più nitidi, la lettura invitante e, quanto meno, avrai degli argomenti interessanti per quattro chiacchere in pausa pranzo.

Per dare una definizione: in sostanza, un paradosso è una descrizione logicamente calzante di un evento illogico e quotidianamente contradditorio. Ma è anche un importante strumento di riflessione che ci permette di capire quanti limiti può avere l’uomo nelle sue capacità di comprensione e adattamento alla realtà.

 Come nella matematica, nell’economia e nella filosofia i paradossi si manifestano di continuo anche nella vita quotidiana e, in questo caso, lavorativa. Tra i più curiosi ne abbiamo scelti 3 da condividere con voi.

L’EFFETTO DUNNING – KRUGER 
“So di non sapere” dice  Socrate in punto di morte.
“Sono un professionista a 360°” dice il 90% dei guru del marketing on-line.

Bastano queste 2 frasi per intuire cosa sia il paradosso di Dunning-Kruger, soprattutto se hai sentito parlare di dissonanze cognitive. (In due parole, sostenere una propria soggettività a prescindere da qualsiasi realtà oggettiva). Infatti, una di queste è proprio  l’effetto Dunning-Kruger. Ma andiamo con ordine. L’ipotesi alla base di questa teoria è che, per una data competenza, le persone inesperte: 

? tenderebbero a sovrastimare il proprio livello di abilità;
? non si renderebbero conto dell’effettiva capacità degli altri;
? non si renderebbero conto della propria inadeguatezza.

Lo studio effettivo di questo fenomeno risale al 1999. In quell’anno  D. e K., docenti di psicologia alla Cornell di New York, compiono 4 studi sperimentali sui loro studenti per validare questa ipotesi; consegnano a questi ultimi dei test di autovalutazione su umorismo, logica e geografia e, una volta completato il test, chiedono loro in che fascia di punteggio si siano collocati. Il risultato? Nel corso di quattro studi, gli autori hanno trovato che i partecipanti appartenenti all’ultimo quartile della classifica sovrastimavano di molto il proprio livello di performance e di abilità. Sebbene i punteggi li accreditassero nel 12° percentile, essi reputavano di essere nel 62° e oltre.

Una situazione paradossale che si presenta, se vogliamo con una certa frequenza, anche nei luoghi di lavoro. A chi non è capitato di ritrovarsi in compagnia di colleghi e sentire i loro discorsi da fenomeni per poi, una volta all’opera, rendersi conto delle loro limitate capacità?

LA SINDROME DELL’IMPOSTORE
Come spesso chi si sopravvaluta veste il ruolo di incompetente, dal lato diametralmente opposto, persone che hanno ottenuto ottimi risultati e soddisfazioni lavorative sono soggette a un fenomeno tanto strano quanto curioso: un Effetto D-K invertito. Questi uomini e – soprattutto – donne di successo, ad un certo punto cominciano a manifestare un senso di inadeguatezza nei confronti dei loro traguardi. E soffrono, spesso in silenzio. E altrettanto spesso rinunciano a mettersi in gioco per raggiungere livelli più alti. E nonostante l’oggettività delle loro competenze, attribuiscono il loro successo a fortuna e tempismo, sentendosi degli impostori e vivendo nella paura di essere smascherati. E nessuna ulteriore affermazione personale riuscirà  a convincerli del contrario.

IL PARADOSSO DI ESTERLIN 
Il paradosso di Easterlin prende il nome da Richard Easterlin che, nel 1974, ha ricercato le ragioni della limitata diffusione della moderna crescita economica. Semplificando le sue teorie, possiamo dire che scoprì che la felicita delle persone dipende molto poco dalla variazioni di reddito e di ricchezza.

In breve: la felicità cresce in modo proporzionale alla ricchezza solo sino a determinate fasce di reddito. Più precisamente, raggiunto un reddito che permetta l’acquisto dei cosiddetti beni di cittadinanza, la correlazione tra reddito e felicità diventa sempre più debole. Fino a scomparire. Questo concetto come lo ritroviamo nel mondo del lavoro? Hai mai notato che nell’ambiente lavorativo c’è sempre una persona che risulta più felice di altre? E non è necessariamente un tuo superiore e nemmeno qualcuno con un salario invidiabile. Allora qual è il motivo? Torniamo al paradosso di Esterlin.

Questo può essere misurato come una funzione della felicità (F) dipendente da reddito individuale (I) e relazioni (R); quindi:

“F= f(I,R)”

Adesso ti potresti domandare: “il lavoro (L) a quale dei due fattori appartiene? Reddito o Relazioni?” La risposta è: entrambi. Ma con proporzionalità variabili rispetto alla persona e al contesto lavorativo. Ora, premesso che in questa funzione il fattore reddito (I) contribuisce in modo prioritario solo nelle fasce più basse, ci possiamo rendere conto che in un contesto lavorativo ad alta professionalità il valore delle relazioni  incide più del reddito. Di conseguenza, il modo più efficace per migliorare il benessere dentro un’azienda ha una soluzione scientifica. Deriva dalla capacità di spostare la percezione dell’incidenza del lavoro (L) dalla mera retribuzione alle relazioni personali. E questo permette di modificare quella cultura che identifica lo spazio di lavoro come luogo alienato dalla vita relazionale dell’individuo. 

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